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Integrazione e educazione: due diritti in contrasto?

di Enrico Micheli
(Estratto da AUTISMO e disturbi dello sviluppo Vol. 2, n. 2 maggio 2204
Edizioni Erickson Trento, che ringraziamo per la gentile concessione)


Indice

- sommario
- introduzione
- Conoscenze scientifiche sull'autismo e sul trattamento: una responsabilità
- L'intervento educativo nella sfera scolastica
- La valutazione delle abilità del soggetto autistico
- La programmazione delle attività educative
- Organizzazione al servizio degli aspetti tecnici
- Il problema dell'integrazione
- Integrazione: aspetti tecnici
- Conclusioni: verso una riforma
- Bibliografia

 

Il problema dell'integrazione

Abbiamo delineato alcuni elementi necessari per far sì che i nostri bambini ricevano una adeguata educazione, cosa che, oltre a essere l'intervento di elezione, è un loro diritto. Ricordiamo però, a questo punto, che è importante anche permettere a questo bambino, che noi stiamo cercando di educare a svolgere delle attività con gli altri bambini, di essere educato all'interno della scuola degli altri bambini e con gli altri bambini. Essere educato essere senza essere segregato. Quanto detto sopra ci pone una grande responsabilità nella scelta del contesto sociale in cui praticare l'intervento educativo. Così come va attentamente studiato il percorso educativo alle abilità, va studiato il percorso sociale. Questo vale specialmente per i bambini autistici, che per definizione hanno:

  • difficoltà di relazione sociale;
  • difficoltà di comunicazione;
  • rigidità e ristrettezza degli interessi e, quindi, difficoltà di motivazione.

Fare cose con altri è proprio quello che gli individui autistici trovano difficile. Fare cose con altri richiede attenzione congiunta, intenzione ed emozione congiunta, abilità di imitazione e di scambio di turni. Richiede abilità di comunicazione, di invio e ricezione di messaggi con mezzi verbali non verbali. Richiede la condivisione di interessi e la presenza di comuni motivazioni. Pensiamo a una partita di pallone: c'è un gruppo che si identifica in un «noi»: è la squadra. C'è una motivazione che si costruisce in ambito puramente sociale, simbolico, ed è vincere o giocare bene. C'è il grido «passa»! da un compagno all'altro... tutto ciò è probabilmente difficile anche per un bambino autistico intelligente o con maestria eccezionale nel maneggio della palla. Anche la rigidità e ristrettezza degli interessi impediscono integrazione. I bambini hanno interessi vasti, attività differenziate, per cui un bambino che non li ha trova difficile l'interazione con gli altri. Tutte queste difficoltà determinano una condizione tale per cui un inserimento sociale non adeguato può facilmente essere di tale disturbo da creare gravi problemi di comportamento e interferire con l'apprendimento.

L'esposizione a contesti sociali non appropriati, non scelti e non controllati dall'educatore non solo porta a perdere tempo, ma può portare, oltre alle gravi conseguenze sopra accennate, a diminuire la probabilità per il bambino di arrivare a una capacità di interazioni sociali più mature.

Un ventaglio di opportunità

Occorre quindi disporre di un «ventaglio» di opportunità, e scegliere bambino per bambino, attività per attività, a seconda del punto di partenza del bambino, attentamente valutato, e della sua evoluzione, attentamente monitorata.

Un estremo di questo ventaglio è che il bambino riceva solo un intervento individuale, in cui non svolge nulla in comune con gli altri bambini (estremo più teorico che reale, perché sappiamo che è possibile già da subito un qualche contatto sociale, con opportune attenzioni); quindi c'è la possibilità di creare classi appositamente attrezzate per un gruppo di bambini autistici. Poi possiamo pensare a gruppi attrezzati per diverse disabilità che includono uno o più bambini con autismo, e abbiamo qui la possibilità di integrare diversi tipi di disabilità in modo produttivo, utilizzando i punti di forza degli uni a favore degli altri, e viceversa. E poi la possibilità di avere classi normali, che includono uno o più bambini con autismo. Spero sia chiaro che dobbiamo cominciare a immaginare queste possibilità organizzative ricordando sempre che non è una scelta tra bianco o nero, ma è l'uso variato e oculato, dipendente da una valutazione razionale, delle diverse opportunità, per diversi momenti o per diverse attività. Per esempio: nelle attività didattiche sulle autonomie personali si fa un lavoro in un gruppo di ragazzini con autismo, per le attività di ginnastica si fa un lavoro in palestra con altri bambini, ecc., realizzando in tal modo forme di inclusione diverse e articolate, decise con appropriata valutazione. Credo che oggi possa essere detto con tranquillità che si può immaginare un ventaglio di opportunità di inclusione e che occorre abolire il modo di pensare che passa dall'estremo «non può stare in classe» all'estremo «deve stare in classe». La posizione sull'integrazione pubblicata sul sito Internet della Division TEACCH è chiara e precisa, utilizzabilissima anche nel nostro contesto. Questa posizione trova fondamento anche nell'estrema eterogeneità della popolazione che ha ricevuto l'etichetta «autismo» per definire i suoi problemi di sviluppo. Per l'autismo non può essere data un'uguale risposta sul problema dell'integrazione, perché non esiste una persona con autismo uguale all'altra. Abbiamo un continuum di problemi, sia nella gravità della disabilità complessiva, sia nella gravità della presenza di fattori autistici: anche sulle caratteristiche tipiche dell'autismo abbiamo un continuum tra autismo lieve e autismo profondo. Possiamo avere un autismo lieve che poi, per altri problemi, risulta in una grave disabilità, e tante altre possibilità combinazioni. In questa estrema eterogeneità gioca anche l'intreccio tra autismo e ritardo mentale. Assistiamo a forti differenze nella comunicazione, e a differenze nella gravità e presenza di problemi di comportamento. Quest'ultimo è uno dei motivi che rendono difficile praticare un inserimento efficace e un'integrazione efficace in attività con altri.

Frequentemente il bambino viene immesso nella classe con gli altri bambini senza una precedente valutazione delle sue abilità sociali. È costretto ad avere contatto con parecchi bambini, con una situazione per lui confusa, rumorosa e non trasparente. Anche se il nostro scopo finale può essere quello di portarlo ad avere interazioni con i bambini normodotati, il modo in cui si organizzano i primi contatti fa sì che il bambino spesso emetta comportamenti che lo isolano e che portano di frequente alla sua esclusione dalla classe. Non esistono collocazioni pensate e organizzate per bambini di diverse abilità o diverso livello: a seconda delle disponibilità di ore di sostegno o di assistenza, per affrontare i problemi, cambia semplicemente la quantità di tempo che passa in classe o nell'aula di sostegno. Invece di effettuare una programmazione di un ambiente sociale adatto, si finisce nell'isolamento.

 

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